Il progetto Parola di pietra nasce dal mio incontro con la materia Ossidiana avvenuto sul Monte Arci, in Sardegna, nell’estate del 2017. Questa pietra particolare, ibrida, nata circa 3,5 milioni di anni fa sull’allora vulcano Arci e lavorata dall’uomo del Neolitico per più di tremila anni, è portatrice di temporalità profonde e di simboli, di memorie di gesti umani e non.
Per riuscire a far fronte agli interrogativi che sono scaturiti progressivamente dall’incontro con lei, ho iniziato un cammino esplorativo –visuale, poetico e personale– dentro una zona di confine, una soglia tra il visibile e l’invisibile, tra il dialogo e la sua assenza.
Con il tempo, è nata l’idea di dare vita a un progetto editoriale, come risposta al bisogno di creare un ritmo narrativo, una partitura visuale che comprendesse una consequenzialità di passaggi spaziali e temporali specifici, basati sul disorientamento materico, sulla perdita della misura, sui cambi di stato della materia stessa e sull’intervento fisico e simbolico che su di essa possiamo agire.
Dire Parola di pietra è come cercare una risposta, soffermarsi nella sua assenza, raccontare la necessità di un dialogo con l’alterità più inaccessibile e irriducibile che esista in relazione a noi, ovvero la materia cosiddetta inerte. Inerte, nonostante il movimento (re)agito e conservato: la pietra reagisce alle nostre mani, si ricorda del tocco e ce lo rimanda indietro, ora come dopo millenni. Chimicamente fluida e fisicamente solida, l’Ossidiana persiste in uno stato intermedio che la rende capace di trattenere in sé una memoria a forma di onda: la traccia indelebile di un gesto subìto, volontario o involontario, che resta congelato sulla sua superficie. Una pietra di segni impressi, che si sovrappongono, che fanno da specchio alle mani che la lavorano. La materia Ossidiana racconta degli uomini e delle donne che siamo stati, tra i suoi frammenti dimorano le risposte ai gesti che su di lei abbiamo compiuto e che in modo inevitabile lei ha registrato, iscritto.
Sembra un dialogo, dunque, ma solo in apparenza, poiché la pietra non parla la mia lingua, non risponde all’appello umano che le rivolgo: «Busso alla porta della pietra [...] –non ho porta, dice la pietra»1. Accomodarmi nel suo silenzio non è facile, poiché in questo scambio che mi appare unilaterale, privo di reciprocità, permane addosso un senso di estraniamento e di solitudine: io posso toccarla, parlarle, posso sentirla o credere di farlo, ma l’Ossidiana resta ferma lì, con le sue parole impossibili, con i suoi silenzi spietati, con il suo essere necessariamente pietra. L’Ossidiana e le mani si fanno dunque simbolo della relazione travagliata tra l’altro e me, dove l’altro che incontro è ciò che non è simile, né assimilabile, ciò che mi disturba e m’interpella proprio per il suo essere così distante da me e, nella fattispecie, così silenzioso.
Eppure, alla fine, ciò che conta non è la risposta che chiedo alla pietra e che lei non sa darmi, né la mia incapacità a comprendere l’incomprensibile, bensì la persistenza della possibilità di relazione a cui scelgo coscientemente di non sottrarmi.

1 Wislawa Szymborska, Conversazione con una pietra, in «La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945 -2009)», a cura di P. Marchesani, p. 177, Adelphi Edizioni, Milano, 2009